sabato 7 marzo 2015

È questione di “vicinanza di sicurezza”

07 marzo

Fin da piccoli, quando all’asilo o nei primi anni delle scuole elementari la maestra ci chiedeva di formare velocemente una fila indiana, l’indicazione era quella di non stare appiccicati gli uni agli altri, al compagno che si trovava davanti, ma di fare in modo che, stendendo il braccio e toccando con la punta delle dita della mano la spalla dell’amico, tutti retrocedessero, creando così uno spazio vuoto di distanza da chi si trovava davanti e dietro. Risultato: una fila quasi perfetta, lunga, formata “a distanza di braccia”.

Più o meno le cose si sono ripetute, anche se con persone diverse, in altri momenti e in altre esperienze di vita. Chi nell’esercito, quando bisognava formare un plotone di marcia, compatto e ben squadrato; chi in una squadra sportiva; chi alla scuola di danza; chi all’autoscuola, durante le lezioni di guida, con le raccomandazioni preoccupate dell’istruttore che incalzava a tenere, mantenere, non superare le distanze di sicurezza dal veicolo davanti; chi allo sportello degli uffici pubblici con la linea gialla marcata sul pavimento, per chiedere di non superare e di non invadere lo spazio immaginario della privacy del cliente davanti... tutti abbiamo avuto, e abbiamo tutt’oggi, a che fare con l’dea, il valore e la pratica della distanza. Insomma, un’educazione – più o meno giusta – a vivere le distanze dagli altri, per diversi motivi, con diverse modalità, fino a creare in molte occasioni il rinforzo di un’idea, che è giusto tenere le distanze da tutti.

Lo stesso concetto di tenere le distanze è passato anche all’interno del proprio modo di vivere l’esperienza religiosa, la dimensione delicatissima della propria fede e del proprio stile di appartenenza alla vita della Chiesa. Ma da invito più o meno giusto, la raccomandazione a tenere sempre e ovunque le distanze dagli altri nella sfera religiosa diventa un problema. Infatti, uno degli aspetti più delicati ad essere compromesso è quello della preghiera personale e comunitaria. Quando si entra in contatto con la sfera intima dell’anima, da un parte si sente la necessità di vivere con positività la propria solitudine con Gesù in modo orante; viceversa, ci si trova di fronte al pressante invito ad uscire da ogni forma di egoismo e di individualismo, per entrare nello spazio condiviso della preghiera comunitaria. Un bel rebus, trovare l’equilibrio tra distanze e di vicinanze di fede.

Ma il vero problema si pone quando nella relazione intima con Gesù si arriva a pensare e a vivere le distanze da lui come una strada di non ritorno. Infatti, c’è chi, e purtroppo è quasi la maggioranza, afferma con schiettezza: “Certo, io sto con te, Gesù, ma a distanza di sicurezza, a distanza di vita”. In altre parole si potrebbe tradurre così: “Io non ti rifiuto, Gesù, ma neppure rinuncio e voglio perdere la mia libertà e la mia voglia di autogestione”.

Da ogni scelta, voluta e difesa, di distanza dal Cristo deriva una preghiera nella quale non sempre prende vita l’effusione del proprio amore per lui. Essendo un dialogo originalissimo e rigeneratore dell’anima, vissuta sia personalmente sia in forma comunitaria, ogni forma di preghiera può costituire l’occasione propizia per fare quell’esperienza di amore e di vita nuova di cui tutti sento il bisogno più profondo.

La cura della propria e personalissima vicinanza a Gesù diventa anche il modo per risolvere il problema di quando ogni fervore lungo la via della fede gradualmente svanisce. Si scopre, allora, che proprio i momenti negativi, le mancanze di piena fiducia in lui, i tanti tentativi di fare sempre di testa propria, portano a credere che, per ripicca, il Risorto si sia allontanato da noi. Al contrario, siamo stati noi che, nella difesa serrata delle nostre illuse sicurezze, siamo stati latitanti ed assenti agli appuntamenti con Dio.

Rimedio? Un cambio di direzione, giusto per imparare a vivere e a dire: “Gesù, io ti amo a pelle!”.